Irina Lucidi Livia e Alessia

Irina Lucidi Livia e Alessia

Adoro l’idea di avere in mano una manciata di lettere, come fossero mattoncini del Lego con cui costruire mondi infiniti. E poi smontarle e ricominciare da capo dando un senso strutturale alla fantasia, perché prendano forme anche bizzarre ma con una sequenza necessaria.

Di conseguenza amo le parole, benché da cronista sia contingentata alla produzione quotidiana tipo catena di montaggio, citando virgolettati o traducendo una realtà complessa, gerghi di pianeti diversi, in parole povere. Le più vicine possibile ai fatti.

Per questo la mancanza di un termine è dolore prima che sfida, vuoto da colmare.

L’assenza di parole per definire un fatto così viscerale come una madre che perde chi ha portato in grembo mi ha sorpresa e sconvolta. Non mi era ancora capitato di trovarmi di fronte al baratro della definizione mancante o, forse, avevo circumnavigato l’ostacolo fino a trovare un guado letterario. Non lo ricordo.

Nel libro ‘Mi sa che fuori è primavera’ (Feltrinelli) la giornalista e scrittrice Concita De Gregorio aiuta, in forma romanzata, l’avvocata italiana Irina Lucidi a scrivere di come l’ingegnere svizzero Mathias Schepp, da cui si era separata, abbia portato via il 28 gennaio 2011 le loro gemelle di 6 anni dal paese vicino a Losanna in cui vivevano per poi suicidarsi 5 giorni dopo, previo un viaggio in Corsica, gettandosi sotto un treno a Cerignola, in Puglia. Le bambine, Alessia e Livia, scomparse. Non sono mai state ritrovate. Nemmeno i corpi. E’ un racconto che non segue una linea temporale, costruito come un puzzle di parole e di fatti, accaduti o mancanti, che si compone per tasselli, attraverso l’analisi, l’identificazione di piccoli dettagli, fino a raggiungere il quadro d’insieme. Un libro che parla della subdola violenza psicologica sulle donne nella relazione di coppia e nella società. Una moglie che subisce un uomo dalla “personalità psicorigida”; una madre, che non viene ascoltata, creduta nei giorni cruciali; due bimbe vittime di questa sordità stereotipata e pregiudizievole; una donna in carriera che viene tacciata di colpa per quel divorzio in corso, quasi un giustificativo per un suicidio e due presunti infanticidi, femminicidi di piccole donne, per aver trovato, negli anni a seguire, un amore anziché divenire, come la società si aspetta, interprete da oscar di una tragedia incommensurabile.

Ma l’elegia del dolore, nel libro, è tutta in quella parola mancante. Esiste nell’ebraico e nell’arabo, in forma più generica nel sanscrito e nel greco, antico e moderno. Ma è assente  in italiano, inglese, francese, tedesco, spagnolo. Esistono i termini che definiscono le perdite involontarie, orfano – orfana, vedovo – vedova, e volontarie  infanticida, uxoricida, parricida (o matricida), ma non c’è un vocabolo per indicare il genitore che ha perso un figlio, scrive De Gregorio. Credo servirebbe una parola ancora più specifica per indicare la madre che ha perso la creatura che ha portato in grembo, aggiungo io, perché c’è una differenza di genere, biologica, viscerale, non migliore o peggiore solo diversa, anche nel dolore.

“Ci sono migliaia di persone… che perdono un figlio. Incidenti, malattie, droghe, guerre, violenze, follie – ricorda il romanzo -. E allora perché le nostre lingue hanno abolito la parola per dirlo?… Avere un nome è avere un posto, una casa fatta di pensieri già pensati… Ti fa sentire, nell’errore, al tuo posto… Un posto difficile ma previsto nella storia del mondo”.

 

Il libro, edito nel giugno 2015, serve a sostenere l’associazione ‘Missing children Switzerland’ www.missingchildren.ch fondata da Irina Lucidi che ha lo scopo di offrire sostegno a livello psicologico, sociale e giuridico alle famiglie e ai congiunti vittime di una scomparsa di minore.