Meryl Streep simbolo di emancipazione femminile e dalla censura del governo nel film di Spielberg sui ‘Pentagon papers’, le prime ‘leaks’ del giornalismo d’inchiesta

Una notizia è la prima bozza della storia”.

In tempi di fake news e di presidenti che twittano come adolescenti, il film ‘The Post’ diretto da Steven Spielberg e che vanta due attori eccezionali come Tom Hanks e Meryl Streep (in tre hanno nove Oscar) dimostra che, nonostante imprescindibili legami politici tra governanti, imprenditori, direttori ed editori di importanti testate e i tentativi di censura, un giornale può fare la cosa giusta in nome della libertà di stampa.

Ma il film pone l’accento anche sul cambiamento epocale avvenuto nell’America degli anni ’70 in merito all’emancipazione femminile: donne che fino ad allora abbandonavano la sala per lasciare gli uomini a discutere di politica, rappresentate simbolicamente dall’editrice Katharine Kay Graham (Streep), entrano nelle redazioni, si assumono la responsabilità di quotare un giornale in borsa, di rischiare tutto, amicizie influenti, vite di lusso, una ‘fabbrica di notizie’ con tanti dipendenti quale è una redazione, persino la prigione per impedire ad un presidente, in questo caso Nixon, e ai giudici federali di bloccare notizie ritenute segreto di Stato. Sorge anche il dubbio che a svelare verità nascoste di tale rilevanza le vite di soldati americani possano essere in pericolo ma alla fine si fanno partire le rotative: “La stampa serve chi è governato e non chi governa” sentenzia infine la Corte Suprema. Un monito che oggi in tutto il mondo, a partire proprio dagli Usa, è quanto mai attuale.

Il film parte dalla pubblicazione dei ‘Pentagon papers’ sul blasonato New York Times nel 1971, sotto la presidenza Nixon. Ma le 7000 pagine della ricerca ‘top secret’ fatta realizzare dal Segretario alla Difesa Robert McNamara sulle strategie degli americani nel sud-est asiatico e durante la guerra del Vietnam dal 1945 al 1967 mettono in luce le continue bugie raccontate al popolo da una serie di presidenti, tutti consapevoli che quella fosse una guerra impossibile da vincere e gli americani fossero mandati a morire solo per non ammettere la sconfitta e non arretrare di un passo di fronte al comunismo: Harry Truman, Dwight Eisenhower, John Kennedy e Lyndon Johnson, fino a Nixon, coi loro ministri e segretari di stato.

A diffondere queste rivelazioni (le prime ‘leaks’), fotocopiando e consegnando ai giornalisti i documenti, fu Daniel Ellsberg, accusato di cospirazione e spionaggio: in seguito le accuse decaddero.

Daniel_Ellsberg in una foto del 2016

Dal ‘fact checking’, la verifica a posteriori delle dichiarazioni rilasciate dai vertici dello Stato rispetto alle verità che emergevano dai rapporti in loro possesso, da tutte quelle menzogne costate molto sangue, c’è la perdita della verginità di una nazione da cui avranno origine le contestazioni, sempre più violente, contro la guerra in Vietnam.

Al New New York Times viene imposta la censura per motivi di sicurezza nazionale. Il Washington Post recupera i documenti del Pentagono e va avanti con l’inchiesta, seguito poi da altre testate minori. E’ il potere occulto a dover cedere. I Pentagon papers (qui la storia completa in inglese) anticipano di un anno l’inchiesta sul Watergate che costò nel 1974 la presidenza a Nixon, sempre grazie alle pubblicazioni del Post diretto da Ben Bradlee. Questo secondo scandalo fu portato sugli schermi nel film ‘Tutti gli uomini del Presidente’ con Dustin Hoffman e Robert Redford nei panni dei cronisti Bob Woodward e Carl Bernstein. Una versione incompleta dei Pentagon Papers venne pubblicata in un libro nel 1971 ma solo nel giugno 2011 il Governo Usa, a 40 anni da quella fuga di notizie, rese pubblica la documentazione completa.

Oggi, come segno dei tempi con le Women’s march femministe e anti Trump, Spielberg pone l’accento anche sull’emancipazione femminile. Il tono è un po’ troppo didascalico, come se fosse necessario spiegare con l’abc (forse rivolgendosi più allo spettatore di genere maschile), e non fosse evidente, che le donne avevano fino ad allora subito un atteggiamento paternalistico e sessista, erano state relegate a ruoli domestici e di rappresentanza, ma erano perfettamente in grado di gestire il potere e fare la cosa giusta. Ma è storia vera ed è bene che venga raccontata. All’epoca il Washington Post venne passato di padre in genero: l’editrice Katharine Graham (1917 – 2001), morti il padre e il marito, circondata esclusivamente da consiglieri uomini, continua a sentirsi ripetere di non essere all’altezza, in quanto donna, del ruolo, ma è lei alla fine ad assumersi i rischi e a giocare la partita. 

Katharine Graham

 

Nel 1972, a capo della Washington Post Company che pubblica anche Newsweek e ha dei canali tv, è l’unica amministratice delegata tra i primi 500 al mondo indicati dalla rivista Fortune. Nel 1998 la sua autobiografia ‘Personal history’ vinse il premio Pulitzer.