Bon Jovi, previa uscita del nuovo album a febbraio, tornerà in concerto in Italia (l’ultima volta ad Udine nel luglio 2011, dove ha cantato imperterrito anche sotto un’acquazzone) il 29 giugno 2013 allo stadio di San Siro, a Milano. Le prevendite

del “Because we can tour” (un omaggio al presidente Obama, di cui ha sostenuto la campagna elettorale) verranno aperte domani, venerdì 9 novembre. In Gran Bretagna la band ha lanciato in queste settimane la vendita dei biglietti a 12 sterline, per renderli più accessibili al pubblico (anche se c’è sempre un’opzione vip per il backstage e per stare sotto il palco, opportunità che non si conquista più a furia di spintoni, come ai bei tempi – una volta sono simil svenuta, mi hanno alzata sopra le transenne, rianimata e poi rispedita in fondo alla fila, costringendomi a ricominciare la scalata da capo -, ma solo con la carta di credito). Un’attenzione al sociale che Jon Bon Jovi dimostra anche in altro modo: dal recente concerto (2 novembre) con Telethon, insieme a Bruce Springsteen, Steve Tyler (Aerosmith), Christina Aguilera, per raccogliere fondi per le popolazioni del New Jersey, la terra dov’è nato e dove vive, colpite dall’uragano Sandy, alla ‘cucina dell’anima’ (“Soul Kitchen”) aperta a Red Bank, sempre nel New Jersey, dove non ci sono prezzi sul menu e ognuno paga quello che può o, se non ha soldi, si mette a lavare i piatti e che in questi giorni post disastro sta erogando, grazie all’impegno di molti volontari, 600 pasti al giorno alle persone in difficoltà, per finire (o iniziare) con la sua JBJ Soul Foundation tramite la quale sta realizzando, dal 2006, case per i senzatetto (a partire dalle zone devastate dall’uragano Kathrina). I Bon Jovi sono risultati (grazie anche ad un tour su scala mondiale e ad un grande lavoro di merchandising) i musicisti più pagati nel 2011 dopo gli U2 e Jon, che è anche attore, gira il mondo sul suo aereo personale. Ma potrebbe godersi i suoi soldi senza impegnarsi nel sociale.
Sposato (la moglie l’ha conosciuta al liceo) e con 4 figli (tra i 20 e gli 8 anni), la sua peculiarità è apparire, nelle interviste, sempre (quasi) una persona qualunque: “Nella band? Sono io il boss. A casa? Mia moglie” ha dichiarato di recente, confessando di arrivare, nell’ordine di considerazione familiare, dopo moglie e figli, alla pari del cane. Quando è di turno nella sua Soul Kitchen, invece, lava i piatti perché, dice “non so cucinare” ma ammette candidamente anche di aver avuto problemi con l’alcol e con gli steroidi quand’era un giovane rocker assurto a livelli mondiali. Se una delle sue canzoni più famose è stata “You give love a bad name”, Jon, con la sua immagine, dà al rock (forse anche all’amore, almeno nell’immagine di marito fedele che appare in pubblico; solo la sua Dorothea, sposata di nascosto a Las Vegas contro la volontà di chi gli stava attorno, può sapere la verità) un buon nome, oltre che una buona musica. Certo, quest’ultima dipende dai gusti, ma, come titolava qualche anno fa una raccolta di successi della band, 100 milioni di Bon Jovi fans non si possono sbagliare (100 000 000 Bon Jovi Fans can’t be wrong). Dall’esordio con “Runaway”, nel 1984, ai successi di “Livin’on a prayer” e “Always” fino ai più recenti “It’s my life”, “Superman tonight” e “Love’s the only rule”, Jon continua a scrivere di temi sociali, di stati d’animo, invitando sempre chi lo ascolta, tra ritmi energetici e ballate melodiche, a prendere in mano le redini della propria vita. Un messaggio positivo, nelle parole, nei fatti, “because we can”.